MARIA TERESA GONZALEZ RAMIREZ

PIOGGIA DI LUCE

INAUGURAZIONE SABATO 25 SETTEMBRE 2010 alle ore 15

durata della Mostra: Dal 25 settembre al 9 Ottobre 2010
Per info: 327.984 53 00


Presso l'Atelier del Borgo e le sale espositive del Museo Civico di Palazzo Branda Castiglioni
in Via Mazzini 13 Castiglione Olona - Varese


Come arrivare:

Il casello autostradale più vicino è quello dell'autostrada Milano/Varese (A8) uscita Varese Est
località Gazzada, a 5 Km dal Centro Storico di Castiglione Olona.

Il territorio del paese è attraversato dalla SS. Varesina che collega Varese con Milano.

La stazione Ferroviaria più vicina è quella di Venegono Superiore,
sulla linea Milano-Varese delle Ferrovie Nord Milano.


Cell: +39. 347.780 00 72
e-mail: mategr@yahoo.com

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Testo critico del Prof. Rolando Bellini


Maria Teresa Gonzalez Ramirez: “Io voglio proporre la Luce”.


“Io voglio proporre la Luce” quest’aforisma di Maria Teresa Gonzalez Ramirez, nasconde un’audacia: presentare in un linguaggio essenziale, d’una semplicità sconcertante, un complesso paradigma artistico incentrato su un ventaglio di differenti (paradossali o plausibili, convincenti o sconcertanti) implicazioni della luce intesa in tutto e per tutto come un materiale comune. Ma anche come un simbolo della oggidiana modernità, senza scivolare mai, per questo, in trite inferenze scienza-arte e tuttavia richiamandosi esplicitamente per esempio ad Edison, ad altri scienziati che hanno contribuito all’evoluzione delle sorgenti di luce artificiale così come alla conoscenza dello spettro luminoso solare, alle ricadute di tutto ciò nell’interpretazione cosmogonica e in altri ambiti, come l’arte. Sottotraccia, tutto ciò parrebbe implicare una lunga storia, che va ad abbracciare, sul fronte dell’arte, impressionisti e postimpressionisti e che soprattutto chiama in causa Dada e Surrealismo.
Quest’artista, nata nel 1967 a Città del Messico, esordiente nel 1996, quattro anni dopo essersi laureate in Scienze della comunicazione alla ULA (Università Latinoamericana) della sua città natale, quest’artista si è dunque fatta carico di una sfida davvero gloriosa, consacrandosi – ormai da anni – a una scrittura-pittura, a una iconografia, a una simbologia artistica fatta di luce.
Ma il dirne pianamente è un’impresa. Tanto più se e quando si voglia anche parlare di lei, donna solare, d’una disarmante felicità interiore e tuttavia tormentata da una sensibilità di pelle fin troppo evidente che la porta a soffrire di mille piccole cose, d’ogni sfumatura. Sto cercando di presentare in poche e semplici parole la donna e l’artista Maria Teresa Gonzalez Ramirez, dopo aver osservato attentamente la persona, dopo aver studiato la sua opera, dopo aver parlato con lei. E dopo aver cercato di dimenticare tutto quello che ho visto od ho creduto di vedere e ho alacremente discusso con Giorgio Bonafé, che me l’ha fatta conoscere e scoprire, con Patrizia Gasperini e Karen Antonini, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione Atelier del Borgo (di cui Bonafé è il direttore artistico), che ne ospitano la personale presso la sede della loro associazione in molto simile a una wunderkammer sita nel cure antico dello storico villaggio, quest’Atelier del Borgo affatto surreale sito nel centro storico di Castiglione Olona che può vantare edifici brunelleschiani e pitture murali di masolino da panicale e del Vecchietta, altre tracce di grande rilevanza. Dunque situata in quell’isola che non c’è, in quel lembo di Toscana in terra lombarda che è la Città (d’arte) di Castiglione Olona, un borgo rinascimentale sospeso ai confini della realtà. Un luogo magico ed epico, in cui – vedi mai – la luce recita un ruolo esclamativo e senza eguali. E richiama irresistibilmente la pittura di luce di artisti quattrocenteschi, non solo Masaccio e Masolino, il Vecchietta o lo Scheggia ma anche il grande Piero della Francesca, l’enigmatico e incognito Maestro di Pratovecchio, il Cervelliera, tant’altri fino a comprendere le maioliche invetriate, bagnate di luce, dei della Robbia, i bagliori frementi di lume trascorrente di Donatello, molto altro, moltissimo altro ancora per approdare infine in grembo alle nude e lucenti dee danzanti della criptica Primavera del Botticelli.
L’intento è quello di affrontare a occhio nudo, disarmato, restituito a una sorta di impudica primitività i lavori di quest’artista messicana che ha messo radici nella provincia varesina al seguito (idealmente s’intende) del cardinal Branda. L’intendimento fondamentale è quello di riuscire a “leggere” nelle più recenti ed ultime opere di Gonzalez Ramirez, nelle sue morfologie biomorfiche, nel ferro, nella tela, nell’acrilico e nel legante loro costituito dalla luce che ne è anche la materia protagonista, qualcosa di simile a quanto, proprio attraverso la luce, – e il suo contrario: l’oscura tenebra – è riuscito a fare il Caravaggio. In quest’ultimo il lume acquista una valenza straordinaria: si fa simbolo e forma, materia e idea ed assume una peculiarità esclamativa facendosi corpo stesso della pittura, il suo spazio e il suo contenuto. Ebbene, questa artista messicana ha finito per far assumere, di volta in volta, alla luce una molteplice identità. A suo modo è riuscita ad emulare, perlomeno in parte, Michelangelo Merisi altrimenti detto il Caravaggio.
Con un atteggiamento postcubista e postfuturista, certo. Soprattutto con un atteggiamento e una strategia della tensione (estetica) postdadaista e neosurrealista. Naturalmente è vero che ella debba molto alle sperimentazioni e agli assemblaggi di differenti materiali esplicitati in tempi non sospetti da Picasso, Braque e sodali. Forse anche più a certe esplorazioni dei futuristi: penso a Prampolini e Depero e naturalmente a Balla, per esempio, ma anche a certe ricerche di Boccioni e d’altri. In fondo, condividendo in questo una continuità di ricerca e di sperimentalità avanzata che passa attraverso Dada e Surrealismo e, per tramite dei surrealisti, da Picabia a Duchamp, da Miró e Masson ad Arp o a Man Ray, Alberto Giacometti o Meret Oppenheim od altri ancora, raggiunge e contagia l’arte nordamericana e da lì la contemporaneità; condividendone l’attuale esito che sembra rimettere tutto questo percorso in discussione pur rinnovandone o rivitalizzandone specifiche istanze. Elaborando enti sempre più inclini alla paradossalità pungente rilasciata dai dadaisti, alle suggestioni che caricano di un doppio senso la realtà rilasciate dai surrealisti – Ernst, Picabia, Arp, soprattutto Marcel Duchamp ma anche Artaud, anche Valéry, anche Bataille, anche Bachelard, anche Man Ray, anche altri, tutta la schiera dei principali attori Dada e poi Surrealisti, fino ad includere Hugo Ball e il suo Cabaret Voltaire – Maria Teresa Gonzalez Ramirez ha mescolato collage e pittura a scultura e installazione e, con spirito postmoderno o decostruzionista, ha azzardato spaesamenti esclamativi. Spaesamenti e nuove strategie di rappresentazione oscillanti tra illustrazione grafica e abbandono al gesto pittorico.
Sdoppiamento emblematico: questo passare indifferentemente dalla illustrazione grafica all’abbandono al gesto pittorico, assume in Maria Teresa Gonzalez Ramirez il sapore di una scrittura cifrata, di un linguaggio pittografico quasi. Dove la comunicazione emigra all’interno del discorso estetico, del linguaggio artistico e declina verso un’artisticità inusuale, ambigua e seducente. Ti pare di cogliere al volo un messaggio e invece ti ritrovi di colpo immerso in un’alta marea artistica tutta emozione, tutta espressione senza altro contenuto se non la propria estrinsecazione felicitante. Diresti di afferrare il succo di questa metamorfosi nell’esaltazione dell’assenza di contenuti. Nella totale assenza di contenuti comunicativi, di strategie pedagogiche, di servitù d’uso o di acquiescenti ruoli subalterni dell’arte rispetto a possibili inferenze etiche, a una morale dominante, all’ossessiva e oggi tanto invasiva “comunicazione” che, in vero, con l’arte ha davvero poco a che fare se non subordinatamente alle ragioni espressive. E invece scopri che, pur paradossalmente, si ha in questa arte un contenuto simbolico. Rovesciando il guanto scopri difatti che in essa vi è un’intenzione salvifica ed edificante dato che all’improvviso l’intima sostanza di queste opere si rivela e le trasforma in una preghiera. Una preghiera di luce, recitata con la semplicità e la delicatezza, insomma con spirito affine a quanto andava recitando la musa ispiratrice dei Surrealisti nel suo agire, nel suo offrirsi, nel suo essere artista unica e inimitabile fra gli stessi colleghi affiliati al nuovo movimento fondato da André Breton. Sto parlando di Meret Oppenheim.
“MI LUZ è solo l’ultima parte di una simbolica conversazione intima”, sostiene sul conto di quest’arte recente di Maria Teresa Gonzalez Ramirez – opere del 2009 / 2010 – Marco Bollentini in un breve testo poetico dedicato all’attività ultima della artista messicana inserito in un catalogo della Galerie Espacio di Morges, in Svizzera. Enti d’una eccentrica aformalità con su l’iscrizione rivelatrice: mi luz, si alternano ad altri enti costituiti in vero da semplici lampadine variamente assemblate e intinte come biscotti nel colore, ora un metallo (oro o argento) ora un colore araldico (rosso, blu o giallo) che richiama anche certe proposte Bauhaus e De Stijl. Altri colori, altre memorie. Una forma dominante per il biennio 2009-2010 è data proprio da queste lampadine, come dire, dozzinali, così ovvie e risapute. Queste banalissime lampadine in parte ridisegnate, in altra decostruite, in altra ancora rimodellate o modificate e spaesate grazie al colore o ad altre elaborazioni… Queste opere finiscono per assumere nuove valenze anche formali. In tal modo assumono su di sé il compito di rappresentare per stratificazione più significati, acquisendo un plusvalore simbolico. Al tempo stesso, esse alludono scopertamente al consumismo e alla serialità, esaltano la irresistibile banalità del quotidiano costringendoci a vederlo con altri occhi. Qual è dunque lo sguardo che questa luz può attivare e che cosa ne discende? Qual è insomma l’esito ultimo della rivelazione che questi enti, questi disarmanti enti di Maria Teresa Gonzalez Ramirez offrono?
Quesito scomodo o scontato che sia, esso conduce quasi per mano all’ultimo atto critico, alla risoluzione del vero enigma che si cela in quest’arte. Non si è al cospetto di una ricerca artistica che evoca gli inferni contemporanei. Il ritrovarsi ottuso in una sala d’aspetto di un ambulatorio medico di base che è ormai diventato un presidio sociale e dove i più vanno a curare la solitudine fingendo le più sciocche malattie e i più insulsi acciacchi, ma neppure il radunarsi ottuso in uno shopping center, uno di quei grandi magazzini o ipermercati che assorbono centinaia di migliaia di sbandati il sabato sera, intrattenendoli con l’esibizione-proposta di bisogni e di desideri inutili. Non si è di fronte alla simulazione metaforica di tali assurdità e dunque di una realtà svuotata d’ogni etica, d’ogni morale, d’ogni estetica, d’ogni politica, d’ogni economia, di tutto. Tuttavia, questa parrebbe l’aspirazione di molti, compiacenti nei confronti del sistema, della collettivizzazione consumistica che deve giocoforza imporre i propri inutili, miseri e fragili e bruttissimi oggetti, che deve suscitare desideri meschini e paradisi artificiali e grotteschi. E così in molti potrebbero voler vedere negli enti, in queste opere recenti ed ultime della artista messicana l’esaltazione sia pure ironica di tutto ciò. Ma non è questa la giusta chiave di lettura delle opere di Maria Teresa Gonzalez Ramirez. Ella piuttosto – unitamente a molti altri artisti contemporanei che avversano la standardizzazione o globalizzazione demenziale in atto – va smascherando e denunciando, a suo modo, con leggerezza e ironia, questi deserti culturali affollati di pubblico, queste piazze gonfie di rumori e vuote di suoni, questa deriva senza ritorno della società avanzata e consumistica e lo sciatto avvento di oggetti senza qualità, di cose dozzinali a cui non si dà più alcun rilievo, mentre invece esse sono parte integrante del benessere, della qualità della vita a cui ormai si è assuefatti e sono altresì, proprio per questo, spie indiziarie di un generale rovesciamento cognitivo e percettivo. Non più solo un ammasso di oggetti di consumo destinati infine alla discarica ma invece, nobilitando ogni cosa e dunque offrendone una letture positiva ma anche impegnativa, poiché etica ed estetica, l’affermazione di un’esistenza tecnologica, di una vita arricchita e semplificata dalla tecnologia imperante ch’è pur sempre eredità diretta di quanto affermato, a suo tempo, da Diderot. E che, pertanto, dà a questi oggetti altra e nuova dignità e impone tutto un altro “vedere” (goetheano). Da qui il senso, la provocazione e l’intento dei differenti cicli denominati Mi Luz, le serie delle opere ultime della artista.
Ma detto questo non si è ancora esaurito veramente il compito della critica. Manca una loro possibile ulteriore contestualizzazione poetica e per così dire intima, una ragione più profonda e cioè artistica ma vincolata alle ragioni dell’arte sotto il profilo esistenziale, affinché emerga la posizione di Maria Teresa Gonzalez Ramirez. Affinché il suo più intimo o segreto slancio creativo che la porta a realizzare tali enti, che la sollecita a portare avanti questi cicli dedicati alla “luce”, consacrati alla “luce” sotto differenti rispetti, venga rivelato. Converrà allora azzardare un ultimo paragrafo, rompendo il filo del ragionamento sin qui sviluppato e il ritmo della narrazione, attraverso una rievocazione.
Giuseppe Raimondi, Emilio Cecchi, ma anche Bacchelli, Cardarelli, tutti scrittori di un certo pregio, rimpiangevano – lo testimonia più di uno scritto – nel pur propositivo fervore dell’ultimo dopoguerra incline a rinnovati valori e sollecitato febbrilmente da un desiderio di riscatto e rinnovamento che è poi venuto meno, affogato anch’esso nella palude del consumismo, e rimpiangevano con forza il clima di un certo passato storico, in cui, in merito all’arte, si era di fronte a quell’ideale di umanità che è cultura, che è condizione dell’attualità perenne di ogni opera d’arte proprio perché opera d’arte. Ma al tempo stesso ne sottolineavano la mitologia, la deificazione stravolgente. E cercavano di opporvi una revisione radicale in grado di corrispondere appieno alle nuove sfide e alle nuove conquiste dell’arte. Soprattutto al superamento di quella deificazione mummificante che le allontana dalla cronaca, per corrispondere piuttosto al dialogo aperto e plurale in atto fra gli intellettuali e gli artisti, un dialogo che si andava sviluppandosi al di sopra di tutte le vetuste frontiere, le opposizioni politico-economiche, le diversità, a tutto vantaggio di una nuova fratellanza sovranazionale, di una condivisione culturale vivificante. Un clima ideale, insomma, a cui aspira, oggi, in tutt’altro scenario (fors’anche più difficile e complesso), la stessa Maria Teresa Gonzalez Ramirez.
Ancora alcuni anni orsono Ezio Raimondi, introducendo alle Giornate di studio “Giuseppe Raimondi”, si interrogava sull’epistolario del giovanissimo letterato bolognese e in particolare veniva a dire: “perché mai Valéry doveva parlare di cose tanto intense della sua invenzione, in un italiano spesso molto corretto, proprio a questo bolognese periferico, se non perché erano nate delle affinità che consentivano a questa Bologna di porsi in forme modeste su una diagonale che comprendeva anche Parigi?”.
Ecco, ecco il suggerimento che si cercava. Anche Maria Teresa Gonzalez Ramirez si pone con le differenti serie del ciclo Mi luz, su una simile diagonale in linea con artisti d’ogni parte del globo, da Parigi a New York, da Pechino a Buenos Aires, da Città del Messico ad Amsterdam, che vanno ricercando il riscatto estetico della contemporaneità. E così non mi sorprenderò quando un domani dovessero venire alla luce lettere, messaggi, scambi via e-mail o sms od altre forme, messaggi che legano questa artista a una comunità internazionale di suoi colleghi, più e meno famosi, persino famosissimi alcuni, più e meno sconosciuti, poco importa. Uniti tutti da una stessa passione, da una unica sfida: liberarci dall’ottusità della banalizzazione quotidiana che toglie spazio e fiato all’immaginazione per riuscire a valorizzare anche gli aspetti meno edificanti del quotidiano e trovare così nuovi, sempre nuovi alimenti alla propria personale creatività, un modo come un altro non soltanto per impostare un’esistenza migliore ma anche per assicurare più ampi spazi di libertà.
Ma Maria Teresa Gonzalez Ramirez opera in tal senso senza forzature o violenze e piuttosto con raccoglimento e delicatezza, dando inoltre corpo a una tensione zen che in qualche modo investe di sé come aura i singoli enti, le singole sequenze della lunga serie Mi luz. Ecco perché poc’anzi ho parlato di preghiera di luce. Ecco perché l’essenza del suo lavoro non è afferrabile di primo acchito.
Credo – per concludere – che per comprendere meglio quanto ho sin qui scritto e in particolare quest’ultimo rilievo e dunque per poter comprendere e penetrare nell’opera attuale ed ultima di Maria Teresa Gonzalez Ramirez, anche sotto il profilo ideale ed esistenziale suo, per riuscire a captare fino in fondo quest’opera di luce, per coglierne tutte le potenzialità e i sapori, convenga andarsi a leggere, e leggere riallacciandosi al lavoro della artista messicana inquadrato secondo quest’ottica sia storicoartistica ed estetica che esistenziale sin qui lumeggiata sia pure in estrema sintesi e per punti, quello che ha scritto Italo Calvino nelle sue indimenticabili Lezioni americane.

Maria Teresa Gonzalez Ramirez attualmente vive e lavora a Varese, Italia.
Cell: +39. 347 7800072
e-mail: mategr@yahoo.com
www.mariateresagonzalezramirez.com

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